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Un imponente valico montano che su una poderosa
altura mostra le rovine di un forte tradizionalmente noto
col nome di Forte di Fra' Diavolo; la vecchia città di
Itri, a cui si accede mediante lunghe e ripide rampe di
scale e che pare una torta di pasticceria, costruita quasi
a perpendicolo su di una collina; la bella Mola di Gaeta 1,
i cui vini, come quelli di Albano, hanno perso in qualità
dai tempi di Orazio (a meno che non si debba dubitare
dei gusti di Orazio in fatto di vini, il che è improbabi-
le per uno come lui che tanto amava il vino e tanto lo
lodò); un'altra tappa notturna, a Sant'Agata"; il giorno
seguente, una sosta a Capua, località pittoresca, ma per
il viaggiatore moderno meno seducente di quanto deve
esserlo stata per i pretoriani di Roma la città antica che
recava lo stesso nome; una strada piana che si allunga in
mezzo a viti tenute a tralci che paiono festoni, tirate da un
albero all'altro; il Vesuvio, finalmente vicinissimo, con la
vetta ed il cono imbiancati di neve mentre il fumo, nella
greve aria diurna, vi stagna sopra come una densa nube!
E così, sferragliando con la carrozza giù per il fianco di
una collina, entriamo a Napoli.
Per strada ci viene incontro un funerale: il corpo,
collocato su un feretro aperto, è trasportato su una spe-
cie di palanchino ricoperto da un vivace panno color
cremisi e oro. Accompagnano il morto figure in tonache
e maschere bianche. E tuttavia, se in giro si muove la
morte, anche la vita è ben rappresentata, poiché par-
rebbe che tutti gli abitanti di Napoli abbiano lasciate le
case per correre a gran velocità su e giù per le strade
con le loro carrozze. Alcune di queste, le comuni «vettu-
re», sono tirate da tre cavalli attaccati di fronte, rivestiti
con bardature vivaci e gran copia di ornamenti di otto-
ne, e procedono sempre di gran carriera. E non è a dire
che rechino un carico leggero: le più piccole, infatti, tra-
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